lunedì 13 febbraio 2012

La ballata In-Costant felice



Quando Costant ciondolava a zonzo
sbirciava sempre oltre la fine
di una testa di fronte bruna o bionda
non guardava mai la sua nobile forma.
Un po' per noia e consolazione
spingeva le palpebre oltre il confine
di un cielo azzurro o scuro di pioggia
ammirava gli alati e la loro energia.
Soleva pensare che le umane forme
prendon vita in uno spazio di terra,
dove l'amore e il gesto gentile
scioglieva con ali ogni spruzzo di bile.

Quando poi, errore incontrava
con un sorriso l'apostrofava,
e la sua cinica sapienza di vita
assicurava all'altare il giusto perdono.

Sopraelevato ai limiti umani
accettava persino le copiose offese,
ritenendo comune dall'esperienza provato,
che nessuno reitera il suo peccato.

Un giorno al solito girando per strada
vide una voce e udi' una piaga,
nel cuore urtavano dei rivoltosi
segnando la fine di un Costant felice.
Due cuccioli d'uomo giocavano distratti
che della vita ignoravan i passi,
senza tristezza usavan violenza
contro un giovane timido becco.
Nel guscio schiuso l'ignaro pennuto
gioiva nell'esser tra simili parenti,
ma la impavida mano di uno dei due
schiantava l'involucro contro quel muro.

E aspetto' per anni la cruda vendetta
prima che la vita lo chiamasse a letto,
i due gagliardi insolenti e cattivi
attese al valico maggiori e pennuti.
Discese in piazza vestito a lutto
celando da anni in cuore il disprezzo
per il povero passero schiacciato al muro,
e nacque Costant infelice e scuro.
Usciti a festa dopo la messa
i bastardi barbuti scherzavano di rimessa,
scalfendo stavolta ancora fanciulle,
patrimonio impudico di insane voglie.
Li prese al volo senza sospetto
li scaglio' a terra in tutta fretta,
e passandoci sopra un secchio di sterco,
li colpi' violento una volta per tutte.
"In questo spazio di terra soltanto
crescete merdosi e senza pianto,
se v'avessi soppresso contro quel muro,
ammirerei un volo sicuro!
Perché se Iddio ci ha dato due gambe
e' per scalciare chi non merita l'ali,
ne' tanto meno potrà camminare,
chi non aspira nemmeno a volare!".


sabato 11 febbraio 2012

Il discorso del padrone

"Rispettabile lavoratore, lei ben sa quanti sacrifici l'azienda ogni giorno compie per garantirle una retribuzione adeguata al suo impiego, dunque, considerato l'apporto e l'impegno della stessa, siamo felici di comunicarle quanto segue:
• a partire dalla data odierna, ogni sua preoccupazione, diverrà la nostra;
• a partire dalla data odierna, qualsiasi reclamo, sarà accolto e ascoltato;
• a partire dalla data odierna, la suddetta azienda provvederà a garantire migliorie in merito ad orari, pause et straordinari;

Certi che quanto approvato dal CDA rispetti le norme vigenti e soddisfi le esigenze sindacali, le auguriamo buon lavoro e una felice permanenza ai nostri comandi.
Le ricordiamo inoltre che presso i nostri uffici amministrativi sono a disposizione terminali collegati alla rete, attraverso i quali potrà prender visione degli aggiornamenti e news in tempo reale. La invitiamo per tanto ad usufruire del servizio gratuito, e per documentarsi in merito alle attuali vicissitudini del Paese, e soprattutto in riferimento alla disputa concernente un tale articolo 18.
La aspettiamo a braccia conserte.

P.s. Adesso può tornare al suo lavoro

In fede
Colui che la paga.

venerdì 10 febbraio 2012

Serenamente distratto, scorro le pagine di giorni come fogli di calendario.
Non è impresa facile distribuirsi con intelligenza nel turbinìo caotino e insano. Direi piuttosto, che occorra affabile inerzia.
Perchè accade sempre che parti di me, restino incollate su stracci di giorni andati, sparsi a casaccio.
Come restare seduti a guardare fotografia umide davanti a un camino raggiante.

Quando, in ultimo, questo "Diario" mostrerà la sua ultima pagina, resteranno solo lembi:
Lembi di pieghe nella parte alta del foglio. Segnalibri, direi.
E dunque, non resterà che leggere solo quelle pagine incollate a lacrime e sorrisi, sospiri e vacillamenti, distrazioni e tempi prolungati da una semplice carezza accaldata.
Tutto il resto, sarà solo stata, distrazione narrativa.

lunedì 16 gennaio 2012

I curiosi casi umani di via Appendice Strada Chiusa Senza Numero Civico. INTERNO 1.

INTERNO 1.

L’indiano.


Alle prime luci dell’alba, il sole bussò alla sua finestra.
Chiedeva asilo per una giornata nella quale, sapeva avrebbe avuto un gran da fare. Non gli sarebbe dispiaciuta una breve sosta per la colazione. In fondo, chi si preoccupa per la colazione del sole?
Di soppiatto allungò le brevi falangi d’oro sul piccolo giardino adiacente. Senza troppo tergiversare, s’arrampicò sugli scalini che portavano all’ingresso. Poi con un vigore splendente e inaudito, bussò alla sua porta.
L’Indiano non dormiva. Aspettava che il sole gli bagnasse la facciata.
Voleva vederlo arrivare. Da quelle parti, era sempre il primo in tutto. Così come era il primo a sbarazzarsi dei visitatori inopportuni.
Comunque, era il primo. Il primo del vicolo, il primo a tirarsi giù dal letto, il primo ad addormentarsi. Quando t’affacciavi su via Appendice, S.C.S.N.C., il suo interno era visibile dalla strada, dunque non potevi fare a meno di darci un’occhiata. Ma lui non se ne curava.
All’Indiano non infastidiva la posizione, non se ne curava affatto.
Temeva piuttosto che se ne sarebbe preoccupato, un giorno, forse.
Anche quel mattino aspettò il sole. Vide che non c’era nulla di nuovo e lo abbandonò alle sue inutili fatiche. Proteso verso la finestra, sbirciava senza entusiasmo i movimenti della grande stella e pensò, che un giorno o l’altro, persino lui – il sole – si sarebbe stancato di fargli visita.
Tornò in cucina per il caffè. Fece appena in tempo. Come tutte le mattine, quello, aveva sbroccato fuori dalla caffettiera. Raccolse col solito panno umido la macchia scura, e la strizzò nel lavandino. Infine bevve il suo caffè bruciato. E dopo anni di quella schifezza, imparò persino ad apprezzarlo, ma senza troppo entusiasmo.

L’Indiano viveva solo. Ma divideva la casa con un fantasma. Aveva gli occhi di ghiaccio, un portamento austero, ed un gatto al quale non diede neppure un nome. Lo chiamava con le dita. Uno schiocco e il bel micione correva da lui.
Il fantasma col quale divideva l’appartamento, era suo fratello gemello. Un tempo erano felici insieme, senza troppo elemosinare cordialità e grande interesse l’uno per l’altro, convivevano nel rispetto dei ruoli.
Fin quando un giorno bisticciarono.

Giunse un postino e suonò. Nessuno aprì.
Così il postino infilò la busta sotto la porta e andò via.
L’ingresso era una zona franca, né l’Indiano, né suo fratello solevano passarci troppo spesso. Fin quando il mattino successivo, il gemello dell’Indiano , uscì per andare a lavoro. A quei tempi lavorava fuori città, il treno delle 06:13 lo attendeva puntuale. Insegnava matematica presso il liceo della capitale. Quando quel mattino, calpestò per errore la busta po-sata davanti all’ingresso, la raccolse. Vide che era destinata all’Indiano. Pensò bene di cestinarla: se suo fratello l’aveva gettata in terra, c’era pure un motivo! Anzi, si ripromise di strigliarlo per bene al rientro a casa: il disordine non era un compromesso bene accetto da entrambi, e non si ca-pacitava di come suo fratello, avesse potuto infrangere una regola così basilare.
In quei giorni l’Indiano viveva di gran solitudine. La sua morosa si era allontanata senza motivo. Continuava a chiedersi il perché di tanta catti-veria, ma dopo qualche minuto, passava in rassegna la sua bella collezione di francobolli. Al lavoro vi erano stati dei cambiamenti. E lui ne era rimasto fuori. Era in cerca di un’altra occupazione, ma era certo che in qualche modo se la sarebbe cavata. L’occasione gli si presentò sottoforma di peli. Un enorme micione si catapultò all’interno del suo appartamento, senza che l’Indiano stesso, avesse potuto evitarlo in qualche maniera.
Quando non pensava alla sua morosa, si occupava del gatto. Non si pre-occupò di affidargli un nome, benché tra lui e l’Indiano c’era una com-plicità e un’intesa quasi naturale. L’unica attività nella quale si impegnò, fu il richiamo. Avrebbe voluto che quel micione, si precipitasse dal lui, al solo schiocco delle dita. E così fu. Dopo alcune sedute di apprendimento, il peloso animale da compagnia, sgattaiolava dalla cucina al soggiorno – sempre nelle zone di pertinenza dell’ Indiano– in un baleno.
Un mattino il gemello professore stava per uscire di casa, come suo solito. Incrociò lo sguardo incuriosito di una bestia che tranquillamente si sti-racchiava davanti ai suoi piedi.
“Questo è troppo!” – pensò.
Corse in camera dell’Indiano col gatto appeso dalla collotta. Il micio con-tinuava a dimenarsi come un diavolo, recidendo il silenzio dei due fratelli con quelle sue unghie ben affilate. Quando notò la somiglianza tra i due, ebbe un momento di smarrimento. Poi impazzì d’istinto e si contorse in una postura che lo fece schiantare al pavimento, in preda ad un raptus.
Bastarono due occhiate tra i fratelli, per capire ciò che sapevano fin dai tempi in cui vivevano i loro genitori. Senza tutori, non avrebbero saputo convivere. La cosa stava in questi termini.
Così l’Indiano, raccolse il gatto e lo accompagnò nella sua cuccia.
Allo stesso modo raccolse suo fratello e lo accompagnò alla porta, stac-candogli un assegno pari alla metà del valore dell’appartamento. Non gli era rimasto più nulla. Dinanzi all’ingresso guardò per l’ultima volta il fratello. Sbandierava tra le mani una mole considerevole di lettere. Il po-stino le abbandonava ogni volta davanti all’ingresso, facendole sfilare sotto l’uscio.
Il gemello gliele lanciò contro. Lui le raccolse.
E tramortì a terra, mentre indifferente, il professore aveva già intrapreso la strada. Una strada nuova, lontano da via Appendice Strada Chiusa Senza Numero Civico.

Anche quel mattino, alla fine, il sole passò oltre casa sua.
Le zone d’ombra si distesero sino a ricoprire con un manto scuro, l’interno occupato dall’Indiano. E anche il suo bel giardino di cactus.
Ne piantò in abbondanza per non esser da meno dei suoi vicini. Non era-no gran bevitori ed avevano un aspetto sempre florido.
L’Indiano era pronto per il suo incontro.
Un tale Blu di Russia, nei pressi della stazione. Il suo cliente aveva quasi due anni.
Quando giunse il fascicolo, giunse anche la signora Berenice.
Ma lui, non la ascoltò affatto: era incuriosito dal motivo.
Dopo anni d’esperienza, corsi e studi sul pedigree, reazioni comporta-mentali dei felini, possedeva una capacità d’interpretazione e analisi, per così dire, spietata. Dopo aver perso il lavoro, l’Indiano si dedicò alla pra-tica dell’educazione di questi animali così cinici, da divenire sempre un motivo dei propri “padroni”. Attraverso il suo metodo di osservazione e sinapsi sensoriale, captava le introspezioni feline, sino a farle divenire immagini nella sua mente. Fotografie, per così dire. In un certo senso, studiava i “padroni”, giacché comprendere un peloso micio, gli risultava esperimento fin troppo semplice. Allineava le caratteristiche della bestia alle inadempienze del “padrone” e giostrava con maestria la sua educa-zione sulle lacune comportamentali dell’individuo.
Nelle sue sedute, parlava esclusivamente al “padrone”. Non rivolgeva le istruzione sull’oggetto della seduta, bensì su quella che sarebbe dovuta essere la guida. L’Indiano ascoltava raramente i clienti, le loro pretese, le lamentele, i desideri.
Mai, non gli ascoltava mai.
E quand’anche ne fosse obbligato, faceva sì con la testa, senza alcuna e-spressione di accondiscendenza.
Il Blu di Russia, tuttavia era un enigma. La sua consolidata bonarietà e indifferenza ai giochi, alle provocazioni esterne, alla socialità intesa come complicità, erano componenti di particolare interesse per i motivi.
Ogni “padrone” accetta di vivere, anzi convivere, con un quattro zampe, per semplici ragioni, che possono variare secondo i temi: compagnia, te-rapia, compassione, capriccio, solitudine, amore …
Attraverso i motivi, l’indiano imparava a conoscere la gente.

La signora Berenice gli era parsa, smotivata. La sua personale opinione, lo induceva a credere, che il suo, fosse solo un vizio. Un vezzo stupido.
Si presentò avvolta in un ammasso di peli costosi. Un visone d’altri tempi, gli stessi che l’avevano vista una giovane capricciosa. Si presentò bussando con i tacchi: avvertì l’arrivo della sua ospite, con largo anticipo, contando i passi e cadenzando i tempi della sua andatura. Era lenta. La signora Berenice era di una flemma indescrivibile. Avrebbe potuto farsi trovare in mutande e vestirsi ad ogni scalino. Ogni scalino un indumento. Taaaàc . . . . . . . . . . . Taaaàc . . . . . . . . Taaaàc . . . . . . . . (attimo di respiro per la spossatezza dell’impresa) e finalmente . . . . .
Il campanello.
<>.
<>.
“Obbligatoria Documentazione (Foto, Libretto Medico, Dati anagrafici, Varie et Eventuali)” – citava il suo annuncio sui rotocalchi.
Le strappò di mano il fascicolo.
Simòn.
Un gigantografia piegata in fogli A4, rappresentava un bellissimo esem-plare di Blu di Russia. Robusto, lucente, dallo sguardo severo ma senza cattiveria. Era un gatto che sapeva il fatto suo. Conosceva le sue origini.
<>.
<>. L’interruppe l’Indiano, soffocando con la mano a ventaglio la timida reazione della Madame.
<>.
Berenice fece solo un gesto del capo. Certo che le conosceva!
<> - disse l’Indiano, indicando su un punto del foglio “DATI ANAGRAFICI E ALTRO”.
Ancora un sì con la testa.
<>.
Che la gente di via Appendice, S.C.S.N.C. fosse strana era risaputo. Ma mai la signora Berenice avrebbe immaginato di così poche parole.
“Saprà il fatto suo. Dicono che è uno tra i migliori della zona!” – pensò mentre risaliva nel taxi che l’aveva accompagnata.

(...continua...)

mercoledì 11 gennaio 2012

I curiosi casi umani di via Appendice (Strada Chiusa Senza Numero Civico). UNO. nOvElLa A pUnTaTe

VIA APPENDICE,

S.C.S.N.C.



Non vi erano indicazioni particolari.

Via Appendice, Strada Chiusa Senza Numero Civico, o la conoscevi, o la ignoravi.

E se la ignoravi, c’era anche un perché.

Ad ogni modo, ogni abitante, ogni pellegrino, ogni passero o topo ballerino, sapeva che, in tal luogo, all’altezza del centro, vi era una strada che non conduceva a nulla. Era un vicolo cieco del mondo, nel quale prima o poi, sarebbero confluite le scorie e le acque d’inverni piovosi. In reflusso si diramava attraverso arterie e piccoli canali sotterranei che, finivano per sbottare e tirar su acqua e merda dai tombini arrugginiti e invecchiati dalla stessa melma degli anni precedenti.

E non vi era nemmeno motivo di doverla visitare, via Appendice.
Sebbene esclusa dalle citazioni planimetriche, una gigantesca distesa verde, un prato incontaminato così come Iddio l’aveva progettato, l’illuminava quel tanto che bastava: un’area fin troppo delicata e ignorata dal mondo. I passanti - per caso o per necessità - ammiravano quell’immenso sputo di erba che brillava. Era lucente, di un verde che non avresti incontrato mai più nella vita: forse, anche per questo, erano in molti a sostenere che Iddio stesso se ne prendeva cura. Era anche proba-bile che le acque di scolo, ne garantissero il sostentamento naturale.

Comunque, Iddio, c’entrava sempre.

Gli abitanti di Via Appendice S.C.S.N.C. eran sempre quelli.

Da una vita.

Se avessero chiesto loro, in quale maniera vi fossero giunti o in quale epoca ci avessero messo piede per la prima volta, la risposta sarebbe stata la stessa: da sempre. E per tutti e tre.

Eran tre case. Tre di numero. Tre come il numero perfetto.

Erano di una riservatezza schifosa. Sembravan figurine appiccicate su di un album, o fotografie in bianco e nero, messe lì per riempire il paesaggio, una cornice.

Ma ciascuna delle tre, delle tre famiglie, viveva la sua vita, il proprio la-voro, i propri amici e parenti lontani a cui far visita nelle feste comandate.

E pagavano anche le tasse, come tutti gli altri. Al catasto e all’anagrafe, risultavano eccome.

Strane voci circolavano già dai tempi della guerra, e nel dopoguerra, e negli anni della contestazione. E probabilmente, da sempre.

Una di esse, per esempio, raccontava la strana storia che quelle case non fossero mai esistite.

Era solo apparenza.

E per questo motivo, si pensò bene di chiamarle col semplice appellativo di “APPARTAMENTI”. Qualcosa di appartato, apparente, approssimativo che mai nessuno, ha visto tirar su.
Gli appartamenti di Via Appendice S.C.S.N.C. si ereditavano, si tramandavano di padre in figlio, tanto che, ciascuno degli eredi, badava bene a che il nucleo famigliare rimanesse sempre e comunque di numero pari a tre. Tre come il numero perfetto. Padre, Madre, Figlio: gli elementi indi-spensabili che potevano definire il concetto di Famiglia.

Solo la famiglia dell’Indiano, faceva eccezione. Ma eran due gemelli.

Indiano Padre, Indiani Figli Gemelli.

I figli erano sempre gocce d’acqua.

Somigliavano ora al padre, ora alla madre. E comunque sempre al legit-timo proprietario dell’appartamento. Erano simili in tutto. Lineamenti, colore degli occhi, postura, camminata. Carattere. Solo l’età poteva di-stinguerli. Comprendevi da subito chi era figlio di chi, e soprattutto in quale via della città abitasse.
Così come gli Appartamenti, anche i residenti di quella strada chiusa senza numero civico, erano una leggenda, di quelle alle quali non puoi che affibbiare un nomignolo strano, o curioso.

Un soprannome, insomma.

Se parlavi di appartamenti, li distinguevi come per un condominio: Inter-no 1, Interno 2, Interno 3.

Se intendevi riferirti ai legittimi proprietari, dovevi chiamarli per nome.

L’indiano.

La famiglia sacra.

I Caini.

Se giocavi per associazione d’idee, era tutto più semplice:

Interno 1 – L’Indiano.

Interno 2 – La famiglia sacra.

Interno 3 – I Caini.


Nessuno se ne è mai chiesto il motivo. Ma tutti, li chiamavano così.

Proprio così.

L’Indiano, La famiglia sacra e I Caini.

Erano gli appartamenti più nascosti della città, quelli dei quali parlavi solo ad un confidente, perché un po’ di vergogna, la provavi.

Di zone del genere, di lati oscuri così, insomma, non ne puoi parlare con chiunque.

Non era la ‘chiacchiera’ più comune.

Tuttavia, era un luogo comune: un posto dove ogni membro della città, si trovava a proprio agio.

Anche senza doverci passare per forza.

Ciascun abitante, pellegrino, passero o topo ballerino, sapeva che quella zona esisteva.

E se la ignoravano, c’era sempre un perché.

(...continua...)

mercoledì 23 novembre 2011

post mortem (e questa la voglio sulla lapide!)

post mortem




se un giorno,

memore della

mia follia,

dovessi tornare indietro…

eccovi la mia cartolina

post mortem:

era uno scherzo,

ma era dal vivo,

ora che non scherzo più,

mi sento

uno

morto!

SALUTI.

La paura del buio. (Che vada via)

La paura del buio. (Che vada via)

E mi ritrovo anche stasera senza un filo di corrente. Disturbi alla linea dicono, ma intanto, mi disturba la voce della risponderia automatica.
"Digiti uno per scoprire le nuove tariffe; Due per comunicare variazioni della sua utenza; Tre per segnalare un guasto...".
Invece cerco il tasto che mi faccia parlare con un operatore.
Ma il nastro pre-registrato, ricomincia da capo.
Entro domattina ripristineranno tutto.

Stanotte non dormo, ho deciso.
Vigilo finchè un segnale elettrico s'infili nella cabina e salga fin su al mio appartamento.
Vigilo perchè voglio esser presente, non deve sorprendermi al risveglio.
Aspetto, soprattutto, per sbarrargli la strada.
Che mi lasci al buio, una volta tanto.
Ora ci sono abituato. Conosco gli angoli di casa, i rumori che producono quando ci urto contro, i passi necessari per evitare il pericolo. Anche silenziosa di luce, questa casa non ha segreti.
Quando ti muovi con eleganza in spazi spenti, allora sì, che puoi tutto.
Avverto l'odore di ogni singolo metro quadro, la consistenza che esso riflette nello spazio tridimensionale, il colore reale degli oggetti, privi d'un faro in proiezione.

Ah se da piccolo avessi scoperto la bellezza del buio.
Avrei ubicato trappole per i miei nemici. I compagni di scuola per esempio.
Nello spazio di mia competenza, non vi sarebbero stati segreti.
Solo poteri.
E' incredibile quanta luce possa nascondere il buio. E' assurdo anche il buio che una fiaccola genera, intorno ad essa.