lunedì 16 gennaio 2012

I curiosi casi umani di via Appendice Strada Chiusa Senza Numero Civico. INTERNO 1.

INTERNO 1.

L’indiano.


Alle prime luci dell’alba, il sole bussò alla sua finestra.
Chiedeva asilo per una giornata nella quale, sapeva avrebbe avuto un gran da fare. Non gli sarebbe dispiaciuta una breve sosta per la colazione. In fondo, chi si preoccupa per la colazione del sole?
Di soppiatto allungò le brevi falangi d’oro sul piccolo giardino adiacente. Senza troppo tergiversare, s’arrampicò sugli scalini che portavano all’ingresso. Poi con un vigore splendente e inaudito, bussò alla sua porta.
L’Indiano non dormiva. Aspettava che il sole gli bagnasse la facciata.
Voleva vederlo arrivare. Da quelle parti, era sempre il primo in tutto. Così come era il primo a sbarazzarsi dei visitatori inopportuni.
Comunque, era il primo. Il primo del vicolo, il primo a tirarsi giù dal letto, il primo ad addormentarsi. Quando t’affacciavi su via Appendice, S.C.S.N.C., il suo interno era visibile dalla strada, dunque non potevi fare a meno di darci un’occhiata. Ma lui non se ne curava.
All’Indiano non infastidiva la posizione, non se ne curava affatto.
Temeva piuttosto che se ne sarebbe preoccupato, un giorno, forse.
Anche quel mattino aspettò il sole. Vide che non c’era nulla di nuovo e lo abbandonò alle sue inutili fatiche. Proteso verso la finestra, sbirciava senza entusiasmo i movimenti della grande stella e pensò, che un giorno o l’altro, persino lui – il sole – si sarebbe stancato di fargli visita.
Tornò in cucina per il caffè. Fece appena in tempo. Come tutte le mattine, quello, aveva sbroccato fuori dalla caffettiera. Raccolse col solito panno umido la macchia scura, e la strizzò nel lavandino. Infine bevve il suo caffè bruciato. E dopo anni di quella schifezza, imparò persino ad apprezzarlo, ma senza troppo entusiasmo.

L’Indiano viveva solo. Ma divideva la casa con un fantasma. Aveva gli occhi di ghiaccio, un portamento austero, ed un gatto al quale non diede neppure un nome. Lo chiamava con le dita. Uno schiocco e il bel micione correva da lui.
Il fantasma col quale divideva l’appartamento, era suo fratello gemello. Un tempo erano felici insieme, senza troppo elemosinare cordialità e grande interesse l’uno per l’altro, convivevano nel rispetto dei ruoli.
Fin quando un giorno bisticciarono.

Giunse un postino e suonò. Nessuno aprì.
Così il postino infilò la busta sotto la porta e andò via.
L’ingresso era una zona franca, né l’Indiano, né suo fratello solevano passarci troppo spesso. Fin quando il mattino successivo, il gemello dell’Indiano , uscì per andare a lavoro. A quei tempi lavorava fuori città, il treno delle 06:13 lo attendeva puntuale. Insegnava matematica presso il liceo della capitale. Quando quel mattino, calpestò per errore la busta po-sata davanti all’ingresso, la raccolse. Vide che era destinata all’Indiano. Pensò bene di cestinarla: se suo fratello l’aveva gettata in terra, c’era pure un motivo! Anzi, si ripromise di strigliarlo per bene al rientro a casa: il disordine non era un compromesso bene accetto da entrambi, e non si ca-pacitava di come suo fratello, avesse potuto infrangere una regola così basilare.
In quei giorni l’Indiano viveva di gran solitudine. La sua morosa si era allontanata senza motivo. Continuava a chiedersi il perché di tanta catti-veria, ma dopo qualche minuto, passava in rassegna la sua bella collezione di francobolli. Al lavoro vi erano stati dei cambiamenti. E lui ne era rimasto fuori. Era in cerca di un’altra occupazione, ma era certo che in qualche modo se la sarebbe cavata. L’occasione gli si presentò sottoforma di peli. Un enorme micione si catapultò all’interno del suo appartamento, senza che l’Indiano stesso, avesse potuto evitarlo in qualche maniera.
Quando non pensava alla sua morosa, si occupava del gatto. Non si pre-occupò di affidargli un nome, benché tra lui e l’Indiano c’era una com-plicità e un’intesa quasi naturale. L’unica attività nella quale si impegnò, fu il richiamo. Avrebbe voluto che quel micione, si precipitasse dal lui, al solo schiocco delle dita. E così fu. Dopo alcune sedute di apprendimento, il peloso animale da compagnia, sgattaiolava dalla cucina al soggiorno – sempre nelle zone di pertinenza dell’ Indiano– in un baleno.
Un mattino il gemello professore stava per uscire di casa, come suo solito. Incrociò lo sguardo incuriosito di una bestia che tranquillamente si sti-racchiava davanti ai suoi piedi.
“Questo è troppo!” – pensò.
Corse in camera dell’Indiano col gatto appeso dalla collotta. Il micio con-tinuava a dimenarsi come un diavolo, recidendo il silenzio dei due fratelli con quelle sue unghie ben affilate. Quando notò la somiglianza tra i due, ebbe un momento di smarrimento. Poi impazzì d’istinto e si contorse in una postura che lo fece schiantare al pavimento, in preda ad un raptus.
Bastarono due occhiate tra i fratelli, per capire ciò che sapevano fin dai tempi in cui vivevano i loro genitori. Senza tutori, non avrebbero saputo convivere. La cosa stava in questi termini.
Così l’Indiano, raccolse il gatto e lo accompagnò nella sua cuccia.
Allo stesso modo raccolse suo fratello e lo accompagnò alla porta, stac-candogli un assegno pari alla metà del valore dell’appartamento. Non gli era rimasto più nulla. Dinanzi all’ingresso guardò per l’ultima volta il fratello. Sbandierava tra le mani una mole considerevole di lettere. Il po-stino le abbandonava ogni volta davanti all’ingresso, facendole sfilare sotto l’uscio.
Il gemello gliele lanciò contro. Lui le raccolse.
E tramortì a terra, mentre indifferente, il professore aveva già intrapreso la strada. Una strada nuova, lontano da via Appendice Strada Chiusa Senza Numero Civico.

Anche quel mattino, alla fine, il sole passò oltre casa sua.
Le zone d’ombra si distesero sino a ricoprire con un manto scuro, l’interno occupato dall’Indiano. E anche il suo bel giardino di cactus.
Ne piantò in abbondanza per non esser da meno dei suoi vicini. Non era-no gran bevitori ed avevano un aspetto sempre florido.
L’Indiano era pronto per il suo incontro.
Un tale Blu di Russia, nei pressi della stazione. Il suo cliente aveva quasi due anni.
Quando giunse il fascicolo, giunse anche la signora Berenice.
Ma lui, non la ascoltò affatto: era incuriosito dal motivo.
Dopo anni d’esperienza, corsi e studi sul pedigree, reazioni comporta-mentali dei felini, possedeva una capacità d’interpretazione e analisi, per così dire, spietata. Dopo aver perso il lavoro, l’Indiano si dedicò alla pra-tica dell’educazione di questi animali così cinici, da divenire sempre un motivo dei propri “padroni”. Attraverso il suo metodo di osservazione e sinapsi sensoriale, captava le introspezioni feline, sino a farle divenire immagini nella sua mente. Fotografie, per così dire. In un certo senso, studiava i “padroni”, giacché comprendere un peloso micio, gli risultava esperimento fin troppo semplice. Allineava le caratteristiche della bestia alle inadempienze del “padrone” e giostrava con maestria la sua educa-zione sulle lacune comportamentali dell’individuo.
Nelle sue sedute, parlava esclusivamente al “padrone”. Non rivolgeva le istruzione sull’oggetto della seduta, bensì su quella che sarebbe dovuta essere la guida. L’Indiano ascoltava raramente i clienti, le loro pretese, le lamentele, i desideri.
Mai, non gli ascoltava mai.
E quand’anche ne fosse obbligato, faceva sì con la testa, senza alcuna e-spressione di accondiscendenza.
Il Blu di Russia, tuttavia era un enigma. La sua consolidata bonarietà e indifferenza ai giochi, alle provocazioni esterne, alla socialità intesa come complicità, erano componenti di particolare interesse per i motivi.
Ogni “padrone” accetta di vivere, anzi convivere, con un quattro zampe, per semplici ragioni, che possono variare secondo i temi: compagnia, te-rapia, compassione, capriccio, solitudine, amore …
Attraverso i motivi, l’indiano imparava a conoscere la gente.

La signora Berenice gli era parsa, smotivata. La sua personale opinione, lo induceva a credere, che il suo, fosse solo un vizio. Un vezzo stupido.
Si presentò avvolta in un ammasso di peli costosi. Un visone d’altri tempi, gli stessi che l’avevano vista una giovane capricciosa. Si presentò bussando con i tacchi: avvertì l’arrivo della sua ospite, con largo anticipo, contando i passi e cadenzando i tempi della sua andatura. Era lenta. La signora Berenice era di una flemma indescrivibile. Avrebbe potuto farsi trovare in mutande e vestirsi ad ogni scalino. Ogni scalino un indumento. Taaaàc . . . . . . . . . . . Taaaàc . . . . . . . . Taaaàc . . . . . . . . (attimo di respiro per la spossatezza dell’impresa) e finalmente . . . . .
Il campanello.
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“Obbligatoria Documentazione (Foto, Libretto Medico, Dati anagrafici, Varie et Eventuali)” – citava il suo annuncio sui rotocalchi.
Le strappò di mano il fascicolo.
Simòn.
Un gigantografia piegata in fogli A4, rappresentava un bellissimo esem-plare di Blu di Russia. Robusto, lucente, dallo sguardo severo ma senza cattiveria. Era un gatto che sapeva il fatto suo. Conosceva le sue origini.
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<>. L’interruppe l’Indiano, soffocando con la mano a ventaglio la timida reazione della Madame.
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Berenice fece solo un gesto del capo. Certo che le conosceva!
<> - disse l’Indiano, indicando su un punto del foglio “DATI ANAGRAFICI E ALTRO”.
Ancora un sì con la testa.
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Che la gente di via Appendice, S.C.S.N.C. fosse strana era risaputo. Ma mai la signora Berenice avrebbe immaginato di così poche parole.
“Saprà il fatto suo. Dicono che è uno tra i migliori della zona!” – pensò mentre risaliva nel taxi che l’aveva accompagnata.

(...continua...)

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